Nuovi eroi, vecchie abitudini

Dal 2 Giugno del 1946 al Primo Maggio del 2021 l’Italia litiga su chi siano i coraggiosi e i vili.

Eccoli apparire in tutto il loro splendore, fatto di banalità, di retorica moralista trita e ritrita, di lacrime e fervore incredibilmente puntuali, di tatuaggi che evocano passati forse soltanto immaginati o immaginari, di vite che incantano e di amori esibiti, sono loro i nuovi eroi, sono loro, soltanto loro che hanno il coraggio di metterci la faccia. Non faccio nomi perché perfino quelli sono superati, obsoleti, inutili; non c'è bisogno alcuno di possedere un nome ed un cognome, né di avere chissà quale bagaglio culturale o preparazione, nè tantomeno appartenere a chissà quale nobile dinastia, perfino il talento, quello creativo, quello artistico è superfluo, ciò che serve è soltanto la faccia, una lente ottica che possa tradurre in contenuto multimediale ciò che si sta rappresentando e ovviamente qualcosa da dire, un messaggio, che solo in apparenza vi sembrerà inedito ma che in realtà rappresenta in gran parte una sequenza interminabile di ovvietà e, guarda caso, senza entrare mai di fatto nel merito reale degli argomenti che si affrontano ma con la raffinata abilità (e questo va loro riconosciuto in qualche modo come l’unico vero talento) di far credere l’esatto contrario.

Non mi interessa se in tali comportamenti vi sia faziosità o premeditazione, se vi sia narcisismo o anche solamente una sana e immacolata propensione al senso civico, a me interessa il presente e ciò che posso confutare o confermare, ciò che posso capire e ciò che posso cambiare o anche solo sapere che tutte queste cose siano tra le possibilità.

Quindi cos’è realmente il coraggio? Salire su un palco e dire delle cose che invece di far riflettere sui loro contenuti scateneranno solo sterili e scomposte diatribe? A cosa serve forgiarsi del diritto alla libera espressione, difendersi da presunte censure per poi invocare diritti, tra l’altro già ampiamente riconosciuti? Dov’è il coraggio di cui molti parlano in tutto questo?

Forse dovreste spegnere il vostro iPhone, scendere dalle vostre lussuose auto e cominciare a camminare nelle città o nei paesi verso le sette di mattina, andare alla fermata dell’autobus e osservare gli sguardi a volte stanchi, altre volte malinconici, altre ancora impauriti o il più delle volte preoccupati ma allo stesso tempo fieri di quelle persone che non aspettano solo di salire su un autobus, ma aspettano risposte chiare, perché a nessuno di loro è stato detto veramente che cosa succede e perché il lavoro che li aspetta da lì a qualche fermata un giorno potrebbe non esserci più.
Poi continuate a camminare e vi accorgerete che non tutte le serrande si stanno alzando, qualcuna rimane abbassata mestamente sconfitta da un futuro cancellato, sottratto alla dignità di chi lo ha umilmente costruito.
Continuate a camminare così da scorgere i volti neri, bianchi, gialli, olivastri dei passanti e incrociandoli vi accorgerete del sottile e quasi impercettibile filo che lega le loro esistenze, e quegli sguardi vi parleranno della rassegnazione più disarmante, dell’ignoranza, della risolutezza, dell’impotenza, dell’ostinazione, della paura, della rabbia e della frustrazione.

Poi ad un certo punto sentirete le note di un pianoforte provenire da qualche finestra socchiusa sopra la vostra testa, vi fermerete qualche istante ad ascoltare, alzerete lo sguardo e non potrete far altro che immaginare chi e quale storia si celi dietro quella musica, perché è così che succede quando si viene sorpresi da un frammento di bellezza.

Così trascorreranno i giorni e ripasserete più volte per quella strada, alla stessa ora, e vi fermerete sotto quella finestra, perché è questo che fa la Musica, ti richiama a sé come il canto delle sirene, finché un giorno non sentirete che il silenzio e di colpo il rumore del portone che si apre e scorgerete il legno scolorito di un pianoforte preceduto dalle imprecazioni di alcuni operai intenti a non farlo schiantare sul marciapiedi, e d’istinto volgerete lo sguardo verso la finestra che immediatamente si chiuderà nervosamente lasciandovi come sospesi nel buio di un mistero, nel vuoto di un inevitabile epilogo, ed è proprio in quel momento che capirete che cos’è davvero il coraggio.

Se tutto questo vi suona come retorico, probabilmente lo è non più di quanto lo siano gli innumerevoli dibattiti televisivi o i titoli e gli editoriali sempre e comunque orientati verso una parte o quell’altra, ma è anche la cruda realtà che questo vecchio e sconsolato paese sta vivendo, questo è il presente e in quanto tale non può essere ignorato, sminuito, svilito o ancor peggio dimenticato o stravolto.

Io non vedo eroi in questo presente, per quanto mi sforzi non riesco ancora a delinearne le epiche fattezze, nemmeno tra le pieghe verdi dei camici nelle corsie di ospedale, o nei cocci di vetro calpestati dagli anfibi delle forze dell’ordine; io vedo solo persone senza dubbio esauste e ragionevolmente impaurite, spaesate, ma ancora determinate e sorprendentemente fiduciose che vi sia sempre e comunque un modo per uscire da questa surreale situazione, nella quale, così ci hanno detto, così crediamo di esserci in qualche modo convinti, noi tutti abbiamo una parte di responsabilità. Ed è proprio qui che sta l’inganno, l’equivoco che con tanta assurda noncuranza ci trasciniamo dietro dalla nascita della Repubblica. Da quel 2 Giugno del 1946, quando oltre a quel celato senso di incompletezza di cui la nostra identità nazionale soffre per ovvie ragioni storiche, ci siamo sempre dovuti confrontare con le nostre differenze irrisolte riassumendo i nostri diverbi intestini dapprima dividendoci in monarchici e repubblicani, poi in borghesia, ceto medio e classe operaia, poi ancora in progressisti e conservatori liberali, e ancora in sovranisti e globalisti, per arrivare a responsabili e irresponsabili negazionisti. Come se la questione fosse scegliere con chi schierarsi e non cosa realmente fare per risolvere una crisi così clamorosamente epocale.

Possiamo continuare all’infinito a cercare di capire chi ha ragione e chi ha torto, o quale sia la verità che più ci fa comodo, che più ci soddisfa, io so soltanto che voglio vivere in un’ Italia in cui non devo essere costretto a rinunciare a essere ciò che il mio ingegno, la mia personalità, la mia dignità, infine le mie scelte identificano il mio essere uomo, libero in un paese libero e in cui l’arte torni ad essere il faro che illumina le coscienze e non una semplice questione da liquidare come non necessaria.

Quindi invece di ostentare indignazione laddove la legge già garantisce equità e giustizia, invece di schierarvi contro o a favore di questa o quella battaglia, chiedetevi se sia più importante il vostro coraggio, il vostro sacrosanto diritto a vivere come meglio credete o se prevalga in voi la paura di morire, perché su quest’ultima è più facile, per chi è solito inseguire il potere, inventarsi qualcosa.

Cristiano Contin

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